Racconti

Malja e l'isola di Palja
Qualche anno fa, Malja mi raccontò di quando fece visitare per la prima volta a Franca l'isola di Palja, una delle sette isole dell'arcipelago Keńoɲĉε, di cui lei mi ha sempre detto di essere originaria, e non vedo il motivo di dubitarne, perché da quanto ho potuto vedere, parla molto bene sia il keńoɲĉese che il paljano, sebbene le mie competenze linguistiche su questi idiomi siano molto elementari.
Comunque, Franca mi disse che rimase subito estasiata dalla gente del luogo, che le sembrò molto più allegra e serena di quanto lo siamo generalmente noi. Tant’è che quando Malja le fece conoscere Mikur, la sua migliore amica di sempre, di cui aveva spesso parlato anche a me, pensò di dirle subito questa sua impressione. Ma Malja le disse che non poteva tradurre quella frase, perché in paljano la parola allegro non esiste. Rimase quindi come inebetita di fronte a Mikur, che sembrava ansiosa di sapere cosa le volesse dire, e lei cercò allora di spiegarglielo con dei gesti, ma abbastanza invano. Disse quindi a Malja di utilizzare un’altra parola simile o di parafrasarle in qualche modo il concetto, ma Malja le rispose che non sapeva davvero come fare a tradurre un concetto che in quella lingua e in quella cultura proprio non esisteva.
Franca disse a Mikur che le sembrava davvero incredibile che un popolo di persone così allegre non avesse una parola per allegria. Ma Malja non potè ovviamente tradurre a Mikur questa frase, non solo perché non poteva tradurre né allegroallegria, ma anche perché disse a Franca che in paljano non c’era neanche la parola credere.
Allora, Franca, che da un primo sbalordimento iniziale, si era già un po’ rassegnata al fatto di non poter esprimere in paljano dei concetti che nella nostra cultura sono molto comuni, disse a Malja di tradurre la parola credere con 'pensare di essere vero'. Ma quando Malja le disse che in paljano non esiste neanche la parola vero, Franca mi raccontò che in quel momento ebbe come la sensazione di essere spinta nel vuoto dalla cima di un precipizio, e mentre cadeva, si ritrovò improvvisamente su un altro piano di coscienza.
Tutto le diventò chiaro e sentì dentro di sé un profondo senso di unione con tutte le cose e soprattutto le sembrò a quel punto di poter comunicare tranquillamente con Mikur e con gli abitanti del luogo senza alcun problema. Peraltro mi ha scritto, che da quando vive lì, ha preso anche un nome keńoɲĉese, che vuol dire qualcosa come 'stupore', visto che quando le chiedevano cosa volesse dire il nome Franca, non era mai stato in grado di spiegarglielo.
Firenze, maggio 2020
Andrea Vaccari